Padre Paolillo scrive alla diocesi di Trani dal Brasile

Racconta le condizioni dei ragazzi nei centri del posto

sabato 4 giugno 2016 21.34
«Le piogge autunnali hanno dato una tregua. Ne approfitto, come sempre, per fare una visita al Centro Educazionale per Giovani (CEJ) di João Pessoa, capitale dello stato della Paraíba, nel nord-est brasiliano». A scriverlo dal Brasile è padre Saverio Paolillo, missionario comboniano, che ha continuato: «Dovrebbe essere un centro di recupero per minori che hanno commesso delitti, ma la struttura non ha niente da invidiare alle prigioni sotterranee del Medioevo. Costruito negli anni 70, il CEJ ha una capacità massima per 80 ragazzi, ma in media ce ne sono 160. I ragazzi sono rinchiusi in celle senza ventilazione, con poca luminosità e con le pareti ammuffite. Il soffitto è pieno di crepe. I materassi sono ammucchiati in cortile ad asciugare al sole. C´è spazzatura dappertutto e un forte odore di fogna. I ragazzi approfittano per fare le pulizie. Alcuni lavano il pavimento, altri sfregano le lenzuola stese a terra. Fanno in fretta perché hanno l´acqua a disposizione tre volte al giorno per quindici minuti. Devono farsi le docce, pulire i bagni e lavare la roba. Dovrebbero essere tutti a scuola, ma nessuno c´è andato perché gli agenti si rifiutano a lavorare. Non ricevono gli stipendi da tre mesi. Mi fermo davanti ad ogni cella, come faccio da circa trent´anni. Tutti si avvicinano alle sbarre. Hanno sempre qualcosa da raccontare, soprattutto quando incontrano qualcuno disposto ad ascoltarli con rispetto. Passo il mio braccio tra le sbarre e stringo la mano a tutti. Li chiamo per nome, li saluto e poi li ascolto con attenzione. Sono stufi di rimanere rinchiusi 24 ore al giorno in pochi metri quadrati senza fare niente. Mi dicono che vanno in cortile tre volta alla settimana per mezz´ora. Si lamentano del cibo. Alcuni parlano della visita che hanno ricevuto il giorno prima. Altri non nascondono la tristezza per non ricevere la visita di nessuno perché le loro famiglie abitano lontano e non hanno soldi per pagarsi il viaggio. Mi fanno domande. Vogliono informazioni sui loro processi. Denunciano aggressioni subite dagli agenti. Annoto tutto quello che dicono. Scatto alcune foto degli ambienti e, soprattutto dei lividi che attribuiscono agli aggressori. Chiedono provvidenze, ma non ho una risposta a tutto. Molte volte mi stringo tra le spalle per dire che non posso fare molto. Tiro dallo zaino le decine di rapporti che ho già inviato al giudice dei minorenni per denunciare la situazione, ma ammetto che non ci sono grandi risultati. Mi chiedono di pregare insieme. Leggo un breve brano del Vangelo, parlo dell´amore che Dio ha per ciascuno di noi. Chi vuole, spontaneamente, contribuisce con la sua riflessione. Alla fine, ognuno fa la sua preghiera, ricordando la famiglia, gli amici e, soprattutto, chiedendo una nuova opportunità. Il sogno di tutti è uscire al più presto da quell´inferno. Sono entrato alle 10 del mattino e sono uscito alle 16. Mi metto in macchina. Mi ci vogliono almeno due giorni per digerire tutto quello che ho visto e ascoltato. Il mio cuore è travolto da vari sentimenti. Il più forte è quello dell´indignazione. Non riesco a rimanere indifferente di fronte a tutto ciò che sta succedendo con la gioventù brasiliana. In tutto il paese ci sono 23 mila adolescenti tra i 12 e i 18 anni rinchiusi nelle carceri minorili che, eccetto rarissime eccezioni, sono delle enormi bare sociali in cui si seppellisce la dignità umana. Questi ragazzi, nonostante tutto, sono "fortunati", perché sono ancora vivi. Nel 2015 oltre 30 mila giovani tra i 15 e i 29 anni sono stati uccisi. Di questi quasi 4 mila erano ragazzi tra i 16 e i 17».

«Quasi tutti gli adolescenti e giovani assassinati erano poveri, neri e abitanti dei territori di periferia abbandonati dalle istituzioni e controllati dal narcotraffico. È un vero e proprio sterminio della gioventù brasiliana. Bisogna fermare questo spargimento di sangue. Facciamo la nostra parte attraverso la realizzazione di progetti destinati ai minori a rischio in linea con la dottrina della protezione integrale, la difesa e promozione dei diritti umani, l´incentivo al protagonismo e l´esercizio della cittadinanza. Arrivato a casa, organizzo gli appunti, inserisco le foto e preparo un ennesimo rapporto da presentare alle autorità. Nei prossimi giorni farò il mio pellegrinaggio per vari uffici sollecitando provvidenze per investigare le violazioni ai diritti di quei ragazzi. Faccio risuonare il loro grido nella società perché possano ricevere l´assistenza necessaria per cambiare vita. Molti mi criticano. Mi accusano di difendere banditi. Spesso ricevo minacce. Ormai mi sono abituato. In Brasile è in atto un processo di criminalizzazione dei difensori di diritti umani, sponsorizzato dalla maggior parte dei mezzi di comunicazione. Non ho mai appoggiato i delitti compiuti dai ragazzi. Soffro nel vederli coinvolti nella malavita, soprattutto quando offendono, con i loro atti violenti, la dignità di altre persone. Ma non voglio arrendermi. Il termine "irrecuperabile" non fa parte del mio vocabolario. Credo nella persona e nella capacità di cambiare. Il cambiamento è possibile, soprattutto se c´è gente disposta a dare una mano. Non si può ridurre una persona ai suoi atti. Ogni essere umano vale molto di più dei delitti che eventualmente commette. In ogni persona esiste una dignità intrinseca che aspetta l´opportunità per emergere. Sono sicuro che il cammino più efficace per sconfiggere la violenza è quello di garantire a tutti l´accesso ai diritti umani fondamentali, soprattutto il diritto alla convivenza famigliare e a una vita circondata da una profonda esperienza di amore. I ragazzi che visito nelle carceri e che incontro nella periferia in cui ho deciso di abitare non hanno mai avuto qualcuno che si prendesse cura di loro. Abbandonati a sé stessi sin dai primi giorni di vita, quasi sempre con i loro diritti negati, non sanno che cosa vuole dire essere amati, riconosciuti e rispettati. Alcuni di loro non si ritengono degni di essere amati. Il nostro lavoro missionario nelle carceri minorili vuole rompere questo ciclo dell´abbandono, dell´indifferenza ed emarginazione attraverso una presenza che faccia trasparire l´amore misericordioso di Dio. Nel nostro lavoro pastorale più che le parole, parlano i gesti. Una delle cose che sorprendono i ragazzi è la nostra maniera di guardarli. Visti sempre con disprezzo, scoprono nel nostro volto uno sguardo d´amore ce è capace di trascendere le apparenze per cogliere il valore intrinseco in ciascuno di loro. Noi non facciamo mai domande sul delitto che hanno commesso. Questa domanda già gliel´hanno fatta durante gli interrogatori in commissariato, in tribunale e nello stesso carcere minorile. Non ci interessa il passato. Ci importa quello che è possibile costruire a partire dal presente. Per innescare questo processo di ricostruzione della propria vita è indispensabile l´incontro con persone che si prendono cura di loro con l´amore che promuove autonomia, libertà e responsabilità».